Storie di Mobbing 01
Di Egizio Trombetta – In tutti questi anni ho ascoltato molte storie di mobbing, ho notato che la tendenza comune è quella di rassegnarsi a questo tipo di fenomeno. Lo si tratta come una malattia incurabile, un cancro, si fa del proprio meglio per schivarlo. Si adottano mille strategie per non finire stretti nella morsa. Chi si trova dalla “parte giusta” tende a giudicare il mobbizzato come una persona condannata, come un povero sfigato. Il mobbing è oramai prassi comune all’interno di ogni azienda, lo si fa, lo si riceve.
con campagne governative come per lo Stalking, ad esempio, o per il bullismo, due fenomeni che hanno la stessa radice del mobbing, cioè la prevaricazione di un essere umano su un altro. Ma a quanto pare il prendere consapevolezza di questo fenomeno non sia interessante per chi ci governa e per chi poi dovrebbe prendere delle decisioni. E’ una forma di violenza ma è anche un reato e come tale dovrebbe essere perseguito” Secondo lei Caterina, può servire rendere pubbliche queste vicende? “Se non fossi stata convinta di questo credo che non avrei scritto un libro sull’argomento. Sono convinta che occorra parlarne, occorra uscire dalla propria storia personale e dunque divulgarla. Io non so quante persone siano disposte a parlare del mobbing perché da quando è uscito il libro e da quando si comincia a parlarne ho ricevuto tantissime e-mail, moltissime telefonate, anche attraverso la casa editrice. Ho parlato con moltissime persone che vivono questo stesso tipo di problema, che vivono e soffrono di mobbing. Queste stesse persone sono però restie a scendere nei dettagli, è difficile rompere il muro di omertà, ma è necessario che si rompa. Il mio piccolo contributo è il libro nei quali sono contenute delle riflessioni sul fenomeno, oltre che la mia storia personale. Credo che vincere l’omertà sia contro le forme di violenza l’unica vera arma” Mi sembra di aver capito che ci sono vari tipi di mobbing. Ho sentito parlare di mobbing verticale, mobbing orizzontale, bossing, eccetera. Mi potrebbe spiegare le differenze? “In realtà di differenze non ce ne sono tantissime, cambiano gli attori, però la scena è sempre la medesima. Quando si parla di mobbing verticale o bossing le forme di violenza e di tortura psicologica sono messe in atto da un superiore verso un diretto, verso un collaboratore. Questo forse è il caso più frequente, è chiaro che chi è gerarchicamente sovraordinato rispetto ad un altro lavoratore esercita in qualche modo un potere. Lo esercita nel momento in cui firma dei permessi, lo esercita nel momento in cui accorda le ferie. Quindi incide proprio nella vita personale del proprio collaboratore. Negare delle ferie, negare un permesso può significare mettere in difficoltà la persona che si ha davanti. Il superiore può allontanare o trasferire il proprio collaboratore, le dinamiche più frequenti e più drammatiche si verificano proprio nel mobbing verticale. Il mobbing cosiddetto orizzontale si verifica quando a fare il vuoto attorno ad una persona sono colleghi dello stesso livello. Quando si è nella stessa condizione , in parità di qualifica, può succedere che si scateni una competizione interna e che dunque si veda in una persona particolarmente preparata un pericolo per il proprio avanzamento di carriera. Oppure ci sono delle altre dinamiche, una persona più fragile viene più facilmente colpita e ridotta all’isolamento. Però ripeto, la sofferenza che provoca nella vittima la condizione di disagio lavorativo non è particolarmente diversa in un caso o nell’altro. Forse è più facile difendersi nel caso del mobbing orizzontale perché in questo tipo di circostanza, chiedere un trasferimento o spostarsi da un settore ad un altro, anche nella stessa azienda, può risolvere il problema. Quando si tratta di mobbing verticale o di bossing è ancora più difficile”Mi può raccontare la sua storia? “La mia storia comincia l’8 marzo del 2002, il giorno della festa della donna, quando sono stata colpita da un provvedimento disciplinare che mi ha costretta a trasferirmi in un altro ufficio e mi ha retrocesso nella carriera. Questo provvedimento disciplinare mi è stato notificato direttamente con la sanzione, non mi è stata mai fatta una contestazione secondo le normative di legge. All’improvviso mi sono vista notificare questo atto con il quale mi si diceva che dovevo lasciare immediatamente l’ufficio che dirigevo, ufficio che tra l’altro non ero particolarmente legata. Io stessa avevo fatto domanda di trasferimento. Io in quel momento ho perso l’orientamento, non sapevo cosa potesse aver scatenato tanto livore nei miei confronti. Da li nasce la storia che io racconto nel libro anche se una certa ostilità nei miei confronti risale ad un po’ di tempo prima quando, come succede alla gran parte delle donne, sono rientrate in ufficio dopo la nascita del mio secondo figlio. I miei due figli sono nati a distanza relativamente ravvicinata e quindi sono tornata in ufficio dopo un’assenza prolungata visto che sono tornata in ufficio dopo due gravidanze difficili. Addirittura in un anno sono stata trasferita tre volte in tre uffici diversi. Sono stati segnali a cui non ho dato grande importanza” Qual era secondo lei lo scopo di questi atteggiamenti? Volevano spingerla a dare le dimissioni? “Si io sono convinta che fosse proprio quello lo scopo. In un’azienda privata sarebbe stato tutto più semplice, io lavoro in una pubblica amministrazione. Nel privato quando c’è un conflitto con un collaboratore particolarmente desiderato o semplicemente considerato scomodo, lo si chiama, lo si invita a dare le dimissioni magari offrendogli un premio in danaro. Oppure gli si da la possibilità di estendere il rapporto di lavoro attraverso un contratto esterno per un certo periodo. Si contratta dunque l’uscita dall’azienda col dipendente stesso. Nella pubblica amministrazione questo non può succedere, abbiamo delle garanzie, abbiamo delle norme che tutelano i lavoratori dipendenti. Anche se non so fino a quando ancora… Allora nel pubblico si scatenano delle strategie che portano al crollo della vittima nella maggior parte dei casi. E’ difficile stare in piedi. Io che sto in piedi da ormai otto anni e mezzo, quasi nove, neanche io so spiegarmi come sono riuscita in tutto questo tempo” Che atteggiamenti hanno i suoi superiori e i suoi colleghi di pari grado? “Hanno atteggiamenti apparentemente normali. Apparentemente la situazione è calma e tranquilla perché la persona colpita è una sola, invece l’apparato è formato da tanti personaggi” Beh, ma ci saranno dei segnali, no? “I segno evidente è prima di tutto l’isolamento. A un certo punto non si inizia ad evitare di parlare con quella determinata persona. Nel mio caso la causa scatenante fu stata la segnalazione alla procura della repubblica di alcuni miei collaboratori che avrebbero falsificato degli atti. Ma è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, non è che sia stata l’unica causa. Lavorando nella pubblica amministrazione, da dirigente, ho sempre mantenuto un comportamento ligio e corretto. E questo, mi dispiace moltissimo dirlo, viene considerato come un handicap. Troppo spesso la corruzione entra nel mondo del lavoro, costringe i dirigenti a firmare degli atti poco leciti, non ho nessuna difficoltà a dirlo davanti una telecamera. Vorrei che altri facessero la stessa cosa, altri che sono a conoscenza di questo tipo di dinamiche. Quando una persona ostacola un’azione politica che viene portata avanti anche a costo sforare nell’illegalità è immediatamente isolata, almeno nel mio caso questo è successo questo. Il provvedimento che mi ha colpito l’8 marzo del 2002 tendeva proprio a questo, mettermi in una condizione di inferiorità ancora maggiore rispetto a quella nella quale mi trovavo. Allontanarmi dal contesto lavorativo in cui avevo operato facendo diminuire i casi di abusivismo in maniera notevole. Chi si doveva occupare del controllo del territorio mi aveva segnalato che in quattro anni di dirigenza dell’ufficio da parte mia i numeri e anche i casi di abusivismo si erano abbassati notevolmente. Ma questo non è considerato un valore aggiunto, questo viene considerato mettere un bastone fra le ruote a chi vuole un’Italia illecita, un’Italia nella quale l’illegalità prevale sulla trasparenza” Ho avuto modo di parlare con una struttura di Milano, li avevo contattati per realizzare una serie di interviste, uno dei responsabili mi ha detto guardi il mobbing è legale. Le aziende lo usano per esercitare un certo controllo e che non c’è niente da fare. La sensazione che ho avuto io, e parlo di sensazioni, è quel centro sia un punto di sfogo per far morire li il fenomeno. Ma c’è secondo lei una cura per debellare questo cancro? “Le , niziative sono state fin adesso individuali. Cioè ognuno si deve difendere da solo ed è uno degli altri motivi di allarme per i quali secondo me si deve parlare di mobbing. E’ difficile contrastare il potere, spesso si tratta di questo. Ma come può essere un fatto legale una forma di violenza? Secondo me si vuole far scadere questa forma di violenza a livello di un vizio sociale. Ma stiamo molto attenti a quando parliamo di vizio sociale. Perché qua se si osservano i comportamenti e se si leggono i giornali e se si accende una televisione, si può notare che si sta cercando di far scadere a livello di vizio sociale persino la pedofilia. La pedofilia è un crimine contro gli innocenti, contro gli indifesi, non può essere considerato un vizio sociale, cioè una forma di tendenza sessuale di un individuo e che quindi si rifà sui minori. Parlando del mobbing, forse ci riusciranno a farlo scadere a livello di vizio sociale e non farlo assurgere a reato perché in fondo è una violenza che si consuma tra quattro pareti. Che siano le quattro pareti di una azienda privata o che siano le quattro pareti di una scuola o di un’istituzione pubblica non ha molta importanza. E’ una dinamica psicologica difficile da codificare e dimostrare che andrebbe risolta, secondo la mentalità corrente, tra gli stessi attori della scena” Ma lei si sente di consigliare alle persone mobbizzate di denunciare le loro storie come sta facendo lei? “Io vengo da una terra omertosa, sono nata in Calabria, anche se sono una mezzosangue perché mia madre è romana. Sono cresciuta li sino agli anni dell’università, quando poi sono andata a studiare a Firenze. Ho imparato che l’unico modo per difendersi da alcune forme di violenza è rompere l’omertà. Quindi certo che consiglierei a tutti di parlarne. Anche se i casi sono molto particolari. Ogni caso è a se stante. Bisognerebbe vedere quale potrebbe essere la reazione del mobber, quali potrebbero essere le conseguenze sulla vittima. La vittima si dovrebbe sentire protetta sino ad arrivare al punto di parlarne. Ma è proprio questa protezione che manca, è una protezione che deve discendere dal legislatore. Faccio un esempio, in Francia esiste l’inversione dell’onere della prova, questo vuol dire che chi mette in atto il mobbing che deve dimostrare di non aver fatto delle azioni vessatorie nei confronti della vittima. Invece in Italia, abbiamo una recente sentenza della cassazione che sostiene che bisogna dimostrare che la patologia, quale che sia, venga direttamente e unicamente dalla dinamica che si è scatenata nell’ambito lavorativo” Lei credo sia perfettamente consapevole che lei, pur essendo vittima del mobbing, è al tempo una persona fortunata. Lei è dirigente, lavora nella pubblica amministrazione, si trova dunque in una condizione di vantaggio rispetto a tante vittime del mobbing che hanno un contratto di lavoro precario e che sono costrette a subire ogni tipo di comportamento vessatorio. Cosa possono fare queste persone? “Anche noi nella pubblica amministrazione abbiamo i precari. Non siamo soltanto dipendenti della pubblica amministrazione. Io ho osservato i comportamenti di questi precari, sono molto solidale con loro perché sono tenuti costantemente sotto ricatto. O fai questo o non ti rinnovo il contratto, ho assistito a delle discussioni di questo genere. O rimani qui sino alle sette e mezza di sera – magari dalle otto del mattino – oppure non ti rinnovo il contratto, prendo un altro. Questa situazione la vivo con grande sofferenza perché in quei casi la possibilità di difendersi è molto limitata perché reagire significherebbe perdere il posto di lavoro. Questo però mi riporta al discorso che facevo prima, non abbiamo protezione! Le vittime del mobbing non sono protette. Io, dal momento in cui sto parlando con lei, mi sto esponendo ancora una volta così come mi sono esposta nello scrivere il mio libro. Sono andata incontro alle conseguenze con un po’ di coraggio ma forse anche con un po’ di incoscienza perché non ho beni al sole che mi consentono di dire arrivederci vado via domani. Io non vivo di rendita, vivo di stipendio, pago un mutuo, come fanno la gran parte delle famiglie italiane, quindi lo stipendio mi serve e manco mi basta. Le spese legali e le spese mediche che ho avuto in questi anni sono state molto gravose. Tuttavia continuo a parlare spinta anche dal pensiero di quelle persone che non riescono a farlo perché non sono protette” Quindi i precari non possono fare nulla? “Non possono fare nulla, sono assolutamente impotenti. Io mi batterò se possibile anche nelle commissioni parlamentari perche ci sia una legge che faccia riconoscere il mobbing come reato, che inserisca il mobbing nel codice penale e che preveda delle misure molto drastiche per contrastarlo. Soltanto in questa maniera chi compie dei comportamenti vessatori, teme la sanzione. Soltanto in questa maniera, forse lo si può limitare, anche se non scomparirà mai secondo me questo fenomeno” Secondo lei può servire rivolgersi a questi centri di ascolto? “Intanto l’utilità principale è proprio quella di essere ascoltati… E’ utile essere ascoltati, come per me è stato utile scrivere, perché si mette ordine ai pensieri . Questo torna utile quando mi trovo a spiegare cosa succede. Quando devo spiegare infatti sono costretta a riordinare i miei pensieri probabilmente confusi e inquinati dalla sofferenza. Ecco, i centri di ascolto sono utili per questo, ma poi sulle loro finalità concrete rimango perplessa, non penso che siano in grado, per come sono strutturate, di contrastare veramente il mobbing. Di solito ci si sente dire alla fine di uno o più colloqui se vuoi ti aiutiamo a trasferirti, ma finisce li” Spesso il mobbizzato è considerato come una persona che non sta più in se, che non è più lucida. “Guardi, le faccio un esempio, l’ultima accusa che mi sono sentita fare è che io sono un po’ strana perché arrivo in ufficio alle otto, o poco prima delle otto ed è strano che un dirigente arrivi in ufficio nello stesso orario in cui arrivino i collaboratori. Pensi un po’… in momento storico dove i dipendenti pubblici sono additati come fannulloni, si accusa un dirigente di essere un po’ strano perché arriva in ufficio in orario. Se l’ambiente è quello, un ambiente dove vigono determinate regole dettate dalla legge del più forte io resterò una disadattata. Non ho nessuna intenzione di assomigliare ai capi sotto i quali io sono capitata” Ho trovato il suo libro a tratti anche divertente. Il libro scorre bene pur narrando una vicenda tragica. “Lo prendo come un complimento e quindi la ringrazio di questo. Divertente non l’avevo ancora sentito dire perché l’aggettivo più usato è inquietante. In effetti io racconto di me stessa e lo faccio in una chiave intimistica ed è inevitabile non sfociare in episodi che sono come dice lei divertenti. Tutto quello che racconto è la realtà, in alcuni casi addolcita un pochino per fare in modo che il lettore non si addormenti con il rischio di avere degli incubi”
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